martedì 25 dicembre 2007

"Scusi - gli chiedo - cosa è di preciso l'omessualità ? "

Gli ho detto: «Sono gay». Mi hanno risposto:
«La sua è una malattia leggera, possiamo curarla bene…»»

Davide Varì - Liberazione

L'appuntamento è con Don Giacomo nella sede delle edizioni Paoline poco lontano dalla Garbatella, ex quartiere popolare di Roma. Un incontro per definire tempi e modi del mio ingresso in un gruppo terapeutico per guarire dall'omosessualità. Un appuntamento sudato: i sedicenti guaritori di gay, almeno in Italia, non vogliono troppa pubblicità. Per rintracciare quello italiano ho dovuto chiamare un gruppo omologo svizzero che mi ha girato la sede milanese di "Obiettivo Chaire", un'associazione ultracattolica che organizza, sì, incontri terapeutici, ma soltanto a Milano. Alla fine mi indicano Don Giacomo qui a Roma, un giovane prelato che, dicono loro, può aiutarmi. E ora, dopo quel lungo peregrinare, ci sono: finalmente sono di fronte allo studio di Don Giacomo. La prima tappa del mio percorso di "guarigione". Un percorso durato circa sei mesi nei quali mi sono ritrovato immerso in un mondo parallelo fatto di reticenze, mezze verità, ambiguità e strane alleanze tra ambienti del Vaticano e alcuni gruppi di psicologi guidati dal Professor Tonino Cantelmi, presidente e fondatore dell'Associazione Italiana Psicologi e Psichiatri Cattolici e docente di psicologia all'Università Gregoriana.
Ma prima c'è don Giacomo, il primo livello di valutazione della "gravità del paziente" spetta infatti a lui, a un rappresentante della Chiesa cattolica. Don Giacomo è gentile. Dopo vari colloqui telefonici nei quali, con molta discrezione e molto tatto, mi chiede i motivi che mi spingono verso questa terapia, arriva il momento dell'incontro. Dopo una breve presentazione, inizia il colloquio vero e proprio.
Le domande fondamentali sono due o tre: quanti rapporti omosessuali ho consumato, con quale frequenza e le sensazioni che ho provato. Gli racconto quasi tutta la verità, tutta tranne il fatto che sono un giornalista e che non sono omosessuale. Gli dico che sono sposato, che ho un bambina e butto lì un paio di esperienze omosessuali legate alla mia adolescenza e la preoccupazione che quelle esperienze possano tornare a galla e rovinare il mio matrimonio. Don Giacomo ascolta con partecipazione. Poi inizia il lavoro d'indagine per capire le ragioni della mia omosessualità. Mi chiede dei miei genitori, del rapporto con mia madre - rispetto alla quale tiro fuori un bel conflitto. Fa sempre bene, penso: ai preti e agli psicologi piace - gli racconto del ruolo marginale di mio padre, dei rapporti sessuali con mia moglie, le relazioni interpersonali e così via. Una scannerizzazione superficiale ma completa del mio vissuto.
Poi la domanda: «Quando è stata la prima volta, Davide», mi chiede Don Giacomo. Gli racconto di un mio compagno di liceo, di tale Luca, col quale ero molto amico e di come quell'amicizia, col tempo e in modo del tutto inaspettato, si fosse trasformata in relazione sessuale. Don Giacomo ascolta con attenzione e partecipazione. Mi vede provato e cambia discorso: «Credi in Dio?» mi chiede. Io rispondo che provengo da una famiglia molto religiosa ma che no, non ho mai praticato. Ma ultimamente, aggiungo, sento rinascere in me qualcosa di diverso. È il momento più delicato, il momento in cui bisogna scegliere se andare fino in fondo passando sopra le sincere convinzioni religiose di Don Giacomo, oppure finirla lì e andarsene.
E' come se mi prendessi gioco della sua fede, e forse nessuno mi da il diritto di arrivare fino a quel punto. Poi mi convinco che nella realtà quotidiana questi "guaritori di omosessuali" fanno solo danni: prendono una persona, nella gran parte dei casi spinta dalla famiglia, gli raccontano che la propria omosessualità è una deviazione dalla norma e la invitano a intraprendere, con loro, un percorso di guarigione, anzi, di "riparazione". Ed allora decido di andare avanti e raccolgo l'appello di Don Giacomo: «Preghiamo insieme?».
Mi forzo, e da ateo convinto prego con lui. Finito il momento di raccoglimento Don Giacomo, con la stessa delicatezza, mi invita a continuare il mio racconto. «La tua relazione con Luca - mi dice - è stata passiva o solo attiva?». Don Giacomo vuol sapere se ho «subito» oppure no una penetrazione. Deve essere solo quello il discrimine fondamentale per capire se davanti a sé c'è un vero omosessuale. «Attivo e passivo», dico di botto. «E mi è anche piaciuto», rispondo quasi in senso di sfida, di fronte a quella domanda così volgare. Volgare non per la cosa in sé, quanto, piuttosto perchè per la prima volta inizio a intravedere, o almeno così mi sembra, i veri pensieri di quel prete così giovane e cordiale. Uno squarcio che smaschera il giudizio che ha di me, anzi, di "quelli come me".
Don Giacomo annuisce in modo austero e poi mi chiede di parlargli degli altri rapporti. A quel punto tiro fuori una relazione fugace con un altro ragazzo "consumata" dopo il matrimonio. Don Giacomo mi invita a raccontare le sensazioni che avevo provato. Io mi invento un «senso di sporcizia morale» che vivo e mi porto dentro tuttora. Il giovane prete è silenzioso. Mi benedice e mi tranquillizza. «La tua omosessualità - dice - è molto superficiale. Io credo che tu sia pronto per iniziare il percorso di guarigione».
A quel punto sono io che faccio qualche domanda e chiedo lumi su quello che lui chiama "percorso". Don Giacomo, grosso modo, mi spiega che quasi tutti gli omosessuali hanno subito un trauma o qualcosa del genere che ha interrotto la "naturale" costruzione della vera identità sessuale. «Per questo - dice - servono terapie riparative. Per riprendere in mano quel vissuto, trovare la frattura e ridefinire la propria identità di genere. Tu sei in uno stato di confusione sessuale, devi farti aiutare per ridefinire la tua sessualità in modo corretto». Perfetto, sono pronto per iniziare il "percorso". Don Giacomo prende un pezzo di carta e scrive telefono e indirizzo del Professor Tonino Cantelmi, «chiamalo tra una settimana, digli che ti mando io, lui saprà già tutto». Mi benedice e mi congeda.

***

Il primo incontro con il professor Cantelmi

Lo studio del professor Tonino Cantelmi - Presidente dell'Istituto di Terapia Cognitivo interpersonale, c'è scritto nella targhetta - è un porto di mare nel quale transitano e approdano le preoccupazioni e le angosce di varia umanità: ragazzini, adolescenti, mamme, nonne. C'è di tutto in quello studio. Io mi accomodo e attendo di essere chiamato. Lui, il professore, ogni tanto esce e saluta il paziente di turno. Con tutti ha un rapporto molto confidenziale, tutti lo chiamano Tonino. Finalmente arriva il mio momento. Raccolgo le idee per evitare di contraddirmi rispetto alla storia che ho raccontato a Don Giacomo qualche settimana prima. Ripasso lo schema, i nomi inventati dei miei falsi amanti e mi infilo nello studio del Professore. Lui mi squadra, mi sorride e mi fa accomodare. «Sono Davide, gli
dico, mi manda Don Giacomo». Lui annuisce - «con quel nome mi ha inserito nella categoria omosessuale pentito», penso tra me - e mi invita a raccontare la mia storia. A quel punto riparto con la vicenda del Liceo, della mia relazione col mio compagno di banco e dei timori rispetto al mio matrimonio dopo un'altra relazione avuta con un ragazzo un paio d'anni fa.
«Che tipo di rapporti hai avuto?», mi chiede Cantelmi.
Io faccio finta di non capire.
«Voglio dire - continua il Professore - hai avuto rapporti completi?».
Annuisco, ma aspetto che il professore esca dalla sua tana e mi ponga la domanda, la domanda con la D maiuscola, in modo diretto. E lui non mi delude: «Insomma Davide - mi dice schietto - sei stato anche passivo nei tuoi rapporti?».
Ci risiamo, penso tra me. «Sì», rispondo. Decido di fare la parte del laconico. Da un lato perchè ho paura di contraddirmi, dall'altro perchè voglio vedere le abilità del professore in azione. Son curioso di capire in che modo si muove. Come lavora. Ma lui mi sorprende e dopo quell'unica risposta, pronto a sbarazzarsi di me, prende carta e penna e scrive il nome di una collega: «Lei è la dottoressa Cacace - mi dice mentre mi porge il bigliettino - è una mia assistente, contattala a mio nome. Lei saprà già tutto». Mi sembra di rivedere un film già visto. Comunque io non voglio perdere l'occasione di ritrovarmi di fronte al "guru" italiano dei guaritori di gay e allora rilancio prima che lui mi liquidi. «Senta dottore - gli dico con il massimo di gentilezza - io vorrei capire di preciso cosa mi aspetta». «Nulla di particolare - fa lui - la dottoressa ti farà un test..»
«Un test?», faccio eco io
«Sì, un test»
«Un test per misurare il mio grado di omosessualità?», incalzo.
«Beh! In un certo senso sì», fa lui.
«Scusi - gli chiedo - ma cos'è di preciso l'omosessualità?»
A quel punto Cantelmi si accomoda, allunga le braccia sul tavolo e comincia: «Io - esordisce - parlerei della tua omosessualità, non di omosessualità in genere. Diciamo che noi siamo un gruppo di psicologi che cercano di aiutare persone in difficoltà. La nostra è una terapia riparativa»

***

La terapia riparativa: l'omosessualità come il comunismo

Si sentiva parlare da tempo di questi taumaturghi del sesso deviato. Una moda che spopola nel Nord America grazie al lavoro di molti gruppi legati alla Chiesa, e che segue l'insegnamento e la pratica di Joseph Nicolosi, presidente della Narth, National Association for Research and Therapy of Homosexuality. Uno psicologo clinico, questo Joseph Nicolosi, un "santone" che vanta ben 500 casi di «gay trattati» e curati - proprio così, «gay trattati» - e che ha tirato fuori dal cilindro della propria stregoneria psichiatrica la cosiddetta "terapia riparativa" il cui scopo dichiarato è quello di «ricondurre all'orientamento eterosessuale le persone omosessuali». Un messaggio che in Italia è stato ripreso e rilanciato dal Professor Tonino Cantelmi, presidente e fondatore dell'Associazione Italiana Psicologi e Psichiatri Cattolici e docente di psicologia all'Università Gregoriana. Insomma, il guru italiano della terapia riparativa, una persona legata a doppio nodo al Vaticano e intorno al quale è nato un gruppo di lavoro formato da cinque, sei giovani psicologi che seguono le terapie individuali dei futuri e "riparati" eterosessuali.
Questa della terapia riparativa è storia antica. Già nel 2005, la rivista Gay Pride pubblicò un lungo articolo nel quale ne metteva in dubbio ogni validità e attendibilità scientifica. Franco Grillini, presidente onorario dell'Arcigay, presentò anche un'interrogazione parlamentare per bloccare, tramite gli ordini professionali, la terapia riparativa. Anche per questo uno come J.M. van den Aardweg, lo psicoterapeuta americano che ha scritto "Omosessualità & speranza", parla di lobby gay all'assalto della scientificità. Tanto per capire cosa si muove dietro questa presunta terapia riparativa, lo stesso van den Aardweg sostiene - lo ha fatto in una recente intervista per "Acquaviva2000, cultura cattolica in rete" - che molti omosessuali «presentano seri disturbi mentali, o hanno sviluppato un comportamento omosessuale di proporzioni tali che non sarebbe tanto sbagliato chiamarli "malati"». Non solo, van den Aardweg è convinto che per colpa del movimento gay, «le masse non assimileranno mai completamente la concezione antinaturale che viene loro imposta. Andrà come con il comunismo. Molti, probabilmente i più, presteranno all'innaturale "religione" omosessuale un culto formale, dettatogli dalla paura, ma si finirà col crederci sempre di meno».
Questi sono gli illustri scienziati che sponsorizzano la terapia riparativa. Ancora più esplicite le parole d'ordine del già citato gruppo ultracattolico "Obiettivo Chaire": «Accompagnamento spirituale, psicologico e medico; attenzione rivolta a genitori, insegnanti ed educatori al fine di prevenire l'insorgere di tendenze omosessuali nei ragazzi, negli adolescenti e nei giovani; ricerca delle cause(spirituali, psicologiche, culturali, storiche) che contribuiscono alla diffusione di atteggiamenti contrari alla legge naturale, riconoscibile dalla ragione rettamente formata».
Poi l'immancabile Joseph Nicolosi, lo psicologo-clinico americano che ha inventato la terapia riparativa. A giorni sarà in Italia per aggiornare i suoi seguaci e illustrare loro, verosimilmente, le ultime novità della sua terapia. Queste le idee di fondo: primo, alla luce delle scienze sociali la forma di famiglia ideale per favorire un sano sviluppo del bambino è il modello tradizionale di matrimonio eterosessuale; secondo, l'identità sessuale si forma in un'età precoce sulla base di " fattori biologici, psicologici e sociali"; terzo, esistono numerosi esempi di persone che sono riuscite a cambiare il loro comportamento, identità, stimoli o fantasie sessuali.
A sostegno di queste tesi sono nati i movimenti "ex-gay", persone "riparate" e spesso convertite al cattolicesimo che hanno lo scopo dichiarato di dimostrare che dall'omosessualità è possibile "guarire". Il bello della faccenda è che sempre più gruppi di "ex gay" vengono sciolti per il fatto che molti associati hanno ri-trovato un partner dello stesso sesso proprio in quell'organizzazione.

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La terapia riparativa di Cantelmi

Cantelmi cerca di adattare su di me, sul mio caso, le ragioni di quella terapia. Parla di traumi infantili che generano confusione in un mondo già pieno di contraddizioni e di liquidità nei rapporti interpersonali. Il tutto per spiegare che in un certo senso
i comportamenti della persona omosessualità sono indotti da questa schizofrenia esterna. Non solo omosessuali però. Il professor Cantelmi è infatti convinto, e me lo spiega, che la nostra epoca è caratterizzata da una grossa compulsività sessuale: una dipendenza che colpisce migliaia di persone e tra questi tanti, tantissimi giovani. Mi parla di «relazioni malate con il sesso», di «perdita di controllo» e così via.
«E in tutto questo, l'omosessualità?», chiedo io.
«Beh, il mio studio è pieno. Abbiamo la fila. Ci sono centinaia di ragazzi che chiedono aiuto».
«Vede - dico cercando di stanarlo - io non so bene se sono omosessuale. Non capisco se sono vittima di una sorta di disagio psichico o se devo assecondare queste mie pulsioni».
«Non preoccuparti Davide - mi dice sereno e sorridente - dal tuo profilo mi sembra di poter parlare di una ansia generalizzata e di una leggera nevrosi che in qualche modo condiziona e devia le tue scelte sessuali. Ora faremo il test e avremo più elementi per poter scegliere la terapia migliore».

***

Il Test ed i discepoli del professore e la cura

La dottoressa Cristina Cacace dell'Istituto di terapia cognitivo interpersonale diretto da Cantelmi mi accoglie sorridente nel suo studio. Mi osserva, anzi mi scruta con insistenza. «Ora mi becca - penso io - scopre che sono un infiltrato e mi caccia». E invece no. Evidentemente la diagnosi del Professor Cantelmi deve avermi suggestionato. Un po' nevrotico, perseguitato, mi ci sento davvero. Fatto sta che lei mi invita con gentilezza nel suo studio targato Ikea, mi fa accomodare e mi interroga: nome, cognome, età, indirizzo, telefono e stato civile. Io rispondo senza esitare e attendo, anche qui, "la" domanda . Ma la dottoressa Cacace già sa e non c'è bisogno di alcuna premessa.
Saltiamo direttamente ai particolari più intimi: quante volte, e fino a che punto. «Fino a che punto in che senso?», chiedo io. Lei sorride. Mi chiedo se lei, giovane psicologa, crede davvero alle follie e alla violenza di questa benedetta "terapia riparativa" oppure se è li, in quel piccolo studio solo perchè non trova nulla di meglio. Ma i miei pensieri vengono interrotti dalla domanda della dottoressa:
«Davide, i tuoi rapporti omosessuali sono stati solo attivi o anche passivi»? Sento un forte disagio di fronte a quella domanda ricorrente, ossessiva. Mi viene in mente il lato pruriginoso e voyeuristico di chi la pone. Alla fine rispondo come ho già risposto a Don Giacomo e al professor Cantelmi: «Sì, attivo e passivo». Poi racconto anche a lei del mio rapporto conflittuale con mia madre, delle assenze di mio padre e aggiungo che ogni tanto, da piccolo,venivo scambiato per bambina. La giovane assistente di Cantelmi annuisce gravemente e mi fissa l'appuntamento per il test di personalità. «Dopo il test - mi dice prima di accompagnarmi alla porta - sapremo meglio come trattare la tua situazione».
Pochi giorni dopo sono di nuovo lì e scopro che il Test dura circa quattro ore ed è nient'altro che il cosiddetto "Test Minnesota" quello che utilizzano le forze armate di mezzo mondo per selezionare il proprio personale. Seicento domande circa che dovrebbero dare risposte su eventuali deviazioni del candidato: ipocondria, depressione, isteria, deviazione psicopatica, mascolinità o femminilità, paranoia, psicastenia, schizofrenia, ipomania e introversione sociale. Un pout-pourri che, tra le altre cose, dovrebbe mettere in luce le mie tendenze omosessuali. Comunque la dottoressa mi dà i fogli, un penna e mi piazza in corridoio. Inizio a scorrere le domande: «Hai avuto esperienze molto strane?»; oppure, «Ti piacerebbe essere un fioraio?». A quest'ultima rispondo di sì spinto dalla banalità della considerazione; Forse chi sceglie di fare il fioraio, secondo loro, ha una predisposizione ha diventare un po'checca.
D'un tratto vengo colpito e distratto dalla presenza silenziosa di una signora e di un giovane adolescente. Sono madre e figlio. Lui mi sembra particolarmente timido, a disagio. Non posso saperlo, ma potrebbe benissimo trattarsi di un ragazzino forzato dalla madre per arginare, almeno finché è in tempo, la «propria devianza omosessuale». Di nuovo penso a quanto sia angusta questa pratica e a quanta violenza abbia in sé. Penso alla pressione che può subire un ragazzino di 15-16 anni che sta scoprendo la propria sessualità. La preoccupazione, spesso in buona fede, dei genitori e la scelta di far qualcosa per fermare quella "scoperta" piuttosto che accoglierla e sostenerla. Poi la signora e il ragazzino si infilano in una delle tante stanze dello studio degli allievi di Cantelmi e io torno al mio test infinito: «Hai mai compiuto pratiche sessuali insolite?»; «Ti piaceva giocare con le bambole?»; «Qualcuno controlla la tua mente?»; «Hai spesso il desiderio di essere di sesso opposto al tuo?»; «L'uomo dovrebbe essere il capo famiglia?»…
Finite le domande, torno in stanza dalla dottoressa.
Lei ripone le mie scartoffie che già contengono il risultato del mio "grado di omosessualità" e tira fuori una decina di cartoncini colorati da figure bizzarre. Sono le macchie del test di Rorschach. Spruzzi indefiniti di colore, che agiscono in modo inconscio attivando reazioni proiettive. Insomma, di fronte a quelle macchie sono invitato a rintracciare e comunicare figure sensate. Io mi lancio sforzandomi di vedere peni, vagine, ani e così via. Individuo anche un paio di feti appesi per il cordone ombelicale. Dò il peggio di me, cercando di convincere la dottoressa Cacace che la mia sessualità è particolarmente deviata, talmente corrotta e omosessuale da meritare le sue cure. Ma lei, di fronte al mio sproloquio genitale non fa una piega: sfila uno dopo l'altro i cartoncini del test e prende diligentemente appunti.
Nel frattempo si accosta a me ed io non trattengo un'occhiata fugace alla scollatura. Lei, sorpresa, si ritrae, si copre e mi guarda con imbarazzo. Insomma, dopo tutto quel parlare della mia omosessualità probabilmente sono caduto nella banalità di voler riaffermare la mia "mascolinità" di fronte a una donna. Per la prima volta, in un certo senso, vivo sulla mia pelle la forza e la violenza del condizionamento sociale e culturale che vivono i gay. Poi, riprendo con le mie figure…

***

I risultati del test, quanto sono omosessuale?

«Non molto, la tua omosessualità è davvero sfumata», mi dice la dottoressa Cacace mostrandomi una ventina di pagine che contengono la mia "diagnosi". «Omosessualità sfumata», proprio così. A quel punto chiedo maggiori spiegazioni. «Allora, io direi che siamo di fronte ad una nevrosi che ha indotto una deviazione sessuale - continua lei - sarà il professor Cantelmi a spiegarti meglio.
Dopo qualche giorno sono di nuovo nella sala d'attesa del professore. La sensazione è la stessa: un porto di mare aperto a tutti i "casi umani". Cantelmi, cortese e accogliente come sempre, sfoglia i risultati del mio test e mi parla di "leggera nevrosi e depressione" che avrebbe indotto la mia deviazione sessuale, l'uscita dai binari di una sessualità sana e consapevole. «Tu non sei propriamente un omosessuale», mi dice. «La tua mi sembra più una preoccupazione determinata da alcuni episodi legati all'infanzia». Poi attacca con il conflitto con mia madre e l'assenza di mio padre, da me del tutto inventata, che mi avrebbe privato di una figura maschile forte, una figura di riferimento su cui avrei dovuto modellare la mia sessualità e definire il mio genere. Dunque non sono del tutto omosessuale.
Forse la terapia è già iniziata. Negare la mia omosessualità è il primo passo verso la "guarigione". Probabilmente è una modalità per iniziare a smontare la convinzione del "paziente". Sentirsi dire, «non sei propriamente omosessuale», forse, significa iniziare a destrutturare la personalità dell'individuo, le sue convinzioni e metterlo di fronte al fatto - un fatto certificato da uno psicologo - che la sua omosessualità non è mai esistita. Anzi, che l'omosessualità in sé non esiste se non nei termini di una deviazione dalla norma, dall'unica norma reale: l'eterosessualità.
«A questo punto - continua poi il professore - si tratta di andare a ripescare quelle fratture e superarle attraverso una terapia adeguata».
«Che tipo di terapia?» chiedo io. «Una terapia individuale. Ti seguirà un mio assistente, ma io - mi tranquillizza - sarò costantemente informato dei tuoi progressi». «Ma io sapevo di gruppi di mutuo-aiuto, pensavo che mi inserisse lì». «I gruppi ci sono - mi dice lui - ma sono gruppi con persone che hanno una forte devianza sessuale. Non credo che sia la terapia migliore per il tuo stato. Non so, vedremo».
Io non mollo la presa e cerco di scoprire cosa accade dentro quei gruppi. «Sono gruppi di persone guidate da psicoterapeuti che condividono le propria esperienza verso un percorso riparativo», aggiunge frettolosamente Cantelmi. Poi si alza, mi dà il numero di telefono dell'ennesimo psicologo, ovviamente un altro assistente, e mi regala un libro: "Oltre l'omosessualità" di Joseph Nicolosi.
Nicolosi, proprio lui, il guru dei guaritori, il creatore della terapia riparativa, quello che vanta ben 500 casi di «gay trattati», anzi, riparati. «Leggilo - mi dice - troverai situazioni simili alla tua. Persone come te che ce l'hanno fatta».

***

Il libro di Nicolosi

Oltre l'omosessualità" di Joseph Nicolosi è una raccolta di storie di vita. Otto storie di omosessuali corretti, riparati, e un'appendice finale sulle modalità della terapia. Tra loro Albert, un trentenne che «parla con tono leggermente effeminato e la nostalgia - sottolinea Nicolosi - di un bambino perduto». E in effetti il problema di Albert, racconta Nicolosi nel suo libro, è proprio il suo attaccamento al mondo perduto dell'infanzia. Di qui un'illustrazione delle caratteristiche ricorrenti nelle persone omosessuali: attrazione distaccata per il proprio corpo, prime esperienze sessuali con altri bambini, ipermasturbazione, - «gli omosessuali - spiega Nicolosi - si masturbano più spesso degli eterosessuali: è un tentativo di stabilire un contatto rituale con il pene» - e una figura materna opprimente. A quel punto l'obiettivo del dottor Nicolosi è quello di «sviluppare un senso più solido della mascolinità» di Albert. Come? Innanzi tutto affrancandosi dall'opprimente legame materno, coltivando amicizie maschili non sessuali e facendo lunghi giri in bicicletta. Lunghi giri in bicicletta, proprio così. Finalmente arrivano i primi progressi: Albert riesce a controllare la masturbazione, si distacca dalla madre, non salta addosso al suo amico e continua a girare in bici per il quartiere. «Le stanno succedendo proprio delle belle cose», confida il dottore ad Albert. Tre anni dopo Albert ha una voce sicura, ogni inflessione femminile è sparita, si è «staccato emotivamente dagli altri maschi e dalla mascolinità», e si è affrancato dal controllo materno: la colpa originaria, la causa della sua omosessualità; Albert si è anche fidanzato con una ragazza. Insomma è riparato. Ed è riparato perchè «ha afferrato - commenta Nicolosi - il concetto del falso sé»: la falsa identità gay che l'esterno ti impone. «No, non sono gay», è l'ultimo commento di Albert prima di iniziare la sua nuova vita da eterosessuale.
Altra vicenda interessante raccontata da Nicolosi è quella di Tom: «Un uomo straordinariamente bello, alto circa 1m e 80, occhi azzurri e ben vestito». (chissà che anche Nicolosi non tradisca una tendenza omosessuale: il guaritore dei gay che scopre di essere gay, un grande classico già visto mille volte). Tom è sposato, ma separato a causa di una relazione con un altro ragazzo: «Andy, un ventiquattrenne irresistibile». Nicolosi è chiaro con Tom: «Se lei vuole divorziare da sua moglie e iniziare la sua nuova vita con il suo amante gay io non la seguo». Il fatto è che Tom si sente vuoto senza la moglie e i figli e non sa come presentarsi in società, come tirare fuori la sua omosessualità.
Un paio di buone ragioni per iniziare la terapia riparativa. Il fatto è che, almeno per Nicolosi, Tom è un omosessuale anomalo: «Non ha problemi di affermazione nei confronti degli altri uomini, in affari è deciso e risoluto ed è estroverso. Ma sotto sotto - svela Nicolosi - ha la fragilità emotiva tipica degli omosessuali». A farla breve, Tom ha una paura nera di perdere la moglie e i figli e ritrovarsi solo perché «le relazioni omosessuali sono senza futuro». A quel punto Nicolosi incontra la moglie di Tom che ha tutta l'intenzione di collaborare per riportare il marito sulla retta via. Un lavoro che riesce, ma i segni dell'omosessualità hanno lasciato la loro traccia indelebile: Tom è Hiv positivo e di lì a poco muore. Il messaggio, meglio, l'avvertimento di Nicolosi è fin troppo chiaro: attenzione, di omosessualità si può guarire ma anche morire.

***

Prove di guarigione

Quando torno nello studio del professor Cantelmi scopro che la mia guarigione è nelle mani di un suo giovanissimo assistente. Anche lui sfoglia i risultati del mio test, e inizia a parlare del percorso che abbiamo davanti. «Ripercorreremo il conflitto con tua madre, l'assenza di tuo padre, cercando di ricomporre le fratture che hanno generato la confusione».
«Confusione?»
«Si, certo, confusione di genere. Ma prima Davide - continua il giovane dottore - parlami della tue esperienze omosessuali». Per la quarta volta mi ritrovo a parlare del mio compagno di Liceo e racconto delle paure del mio matrimonio. Ma la Domanda arriva: «Davide, i tuoi rapporti sono stati completi?». «Vuol sapere se l'ho preso nel di dietro dottore? Sì, due volte», rispondo seccato. Lui sorride imbarazzato. Ma in effetti è proprio quello che voleva sapere. Poi si riprende e attacca. «Vorrei anche sapere le sensazioni che hai provato». Sull'orlo dell'esaurimento per quelle domande così ripetitive e di basso livello, attacco un pilotto infinito. Gli racconto, invento, ogni particolare. Gli parlo dell'eccitazione del rapporto omosessuale maschile, del senso di trasgressione e richiamo alla mente alcuni passaggi particolarmente suggestivi e "scabrosi" descritti da uno dei pazienti del libro di Nicolosi. Lui si beve tutto e prende diligentemente appunti. Finalmente gli ho offerto il "malato" che è in me e mi sembra visibilmente soddisfatto.
Io inizio a provare un senso di nausea. Nausea per Don Giacomo, per il professor Cantelmi e per i suoi giovani assistenti. Sono passati sei mesi dal mio primo incontro e a questo punto mi sembra di non riuscire a sopportare oltre. Mi rendo conto che in questo lungo periodo abbiamo solo parlato del mio didietro. Per la prima volta realizzo che nessuno di loro mi ha mai chiesto se mi era capitato di innamorarmi di qualche uomo. Nessuno ha mai voluto sapere le mie emozioni di fronte ai rapporti omosessuali. Possibile che non gli interessi altro che il numero di penetrazioni "subite"? Il giovane psicologo mi fissa un nuovo appuntamento. Io lo saluto e sparisco. Non metterò mai più piede in quello studio. Ormai ne so abbastanza.

martedì 18 dicembre 2007

Il trionfo del ma anche

Sulle Unioni Civili il Pd e Veltroni sconfessano se stessi.

“Siamo per il riconoscimento dei diritti civili, ma anche per accogliere gli stimoli del Vicariato Romano”.

Ieri a Roma sul delicato tema delle “Unioni civili” abbiamo assistito al trionfo del “ma anche”.

Il Pd romano ha deciso di non pronunciarsi. O meglio si è pronunciato benissimo. Ascoltando unicamente le sirene delle “note esplicative” (leggi ordini) imposti dalle gerarchie Vaticane.

Roma resta senza registro delle unioni civili e il sindaco di Roma (ieri grande assente) perde (volutamente) un buona occasione per ricostruire un legame più stretto con tutte quelle forze poltiche, associazioni e movimenti della sinistra sociale e diffusa che pure con lui avevano dato vita al “Laboratorio Roma” della prima giunta Veltroni.

Il comico Crozza sarà contento, il suo “ma anche” è davvero la chiave di lettura migliore per capire il profilo culturale che il sindaco di Roma e segretario del Pd intende dare al nuovo partito.

Meno contenti saranno tutti quelli che si aspettano qualcosa in più in tema di diritti civili dal “sindaco di tutti” eletto per il secondo mandato con percentuali plebiscitarie…ma questa è un’altra storia. E non finisce certo con la serata di ieri.

Luttazzi offre sul palco il Decameron che non vedremo

Il freddo intenso della domenica sera non è bastato a scoraggiare le centinaia di persone che hanno riempito il teatro Ambra Jovinelli, a Roma, per assistere alla «serata Decameron»: la sesta puntata dello show di Daniele Luttazzi, sospeso da La7 la settimana scorsa dopo le battute su Giuliano Ferrara. Per cercare di soddisfare tutte le richieste, la direzione dell’Ambra Jovinelli ha anche piazzato uno schermo gigante nel piazzale davanti l’ingresso del teatro. La performance di Luttazzi è diventata una specie di manifestazione spontanea contro la censura.

A sorpresa, il comico romagnolo ha dedicato a Ferrara e alla polemica con La7 solo le battute iniziali. Poi, gran parte dello show è stato diretto contro la chiesa cattolica e soprattutto contro Joseph Ratzinger, papa Benedetto XVI. Dei quattro temi di Decameron, politica sesso religione e morte, la serata si è concentrata sulla religione. Forse in questo modo Luttazzi ha voluto dare sostegno alle voci secondo le quali la battuta su Ferrara nudo nella vasca da bagno sarebbe stata solo il pretesto per chiudere Decameron. La vera ragione della censura sarebbe stata la critica all’ultima enciclica di Ratzinger, la «Spe salvi», pubblicata qualche giorno fa. «Ratzinger dice che la scienza non salva l’uomo – ha detto Luttazzi in una delle raffiche più applaudite – allora potrebbe smettere di prendere antibiotici»; «la chiesa cattolica difende un pensiero magico, tanto vale tornare a consultare le interiora dei polli»; «se dio avesse voluto farci credere in lui, semplicemente sarebbe esistito» e a proposito della sperimentazione della pillola Ru486: «se gli uomini rimanessero incinti, gli aborti si potrebbero fare anche dal barbiere»; «Ricordo che ero in tourné quando Ratzinger è stato eletto papa e la prima battuta a caldo fu ‘Eletto Ratzinger, rinnovata la condanna a Galileo’. Ora posso dire che avevo ragione».
Lo spettacolo non è stato un one man show. Sul palco hanno partecipato anche gli attori che comparivano nei «Dialoghi platonici» del Decameron televisivo e davano voce e volto ai personaggi che scandivano la trasmissione. Senza le interruzioni della pubblicità, peraltro, la scansione dello show assume un senso nuovo e molto più accattivante. Saltellando tra satira politica, lezioni di scetticismo filosofico e incursioni nella «risata verde» delle battute più acri, Luttazzi ha inondato il pubblico con quasi due ore di spettacolo. L’ossatura erano i testi preparati per la puntata di Decameron che non vedremo mai, ma con robusti innesti delle «Lepidezze postribolari» pubblicate un anno fa e alcune battute già collaudate nelle cinque puntate del suo show trasmesse da La7. Nonostante il Natale, Luttazzi non è stato più buono, anzi: il centrosinistra, la sua debolezza politica e culturale, sono stati uno dei bersagli preferiti dei raid nell’attualità politica [«Prodi ricoverato per allucinazioni, crede di essere a capo di una coalizione; Grazie alla ricerca sulle cellule staminali è stata trovata la cura per rigenerare la spina dorsale del centrosinistra»], che non ha risparmiato il sindaco di Roma e leader del Pd Walter Veltroni. Luttazzi ha ricordato sia la «contrattazione» tra Veltroni e il Vaticano per la creazione di un registro delle unioni civili nel comune di Roma, sia la trattativa con Berlusconi. Niente battute su questo tema: «Veltroni ha detto che in questo modo si chiude la stagione dell’odio. Solo che così ha legittimato il discorso di Berlusconi che ha sempre detto di essere odiato. L’odio, però, è un sentimento inspiegabile, irrazionale e immotivato… Berlusconi non suscita odio, ma schifo».
In platea, mischiati tra il pubblico, anche Corrado e Sabina Guzzanti. Quando Luttazzi li ha salutati, l’ombra dei Veltroni, Rutelli, Bertinotti e Prodi fatti da Corrado Guzzanti, così come il D’Alema di Sabina hanno aleggiato per alcuni secondi sul pubblico che applaudiva. Era un ringraziamento a chi aveva consegnato alla verità della satira l’aver intuito, con anni di anticipio, che l’Italia avrebbe avuto ben poco da ridere.

Tratto da Carta*

lunedì 17 dicembre 2007

"Manganellate" vigliacche di Gasparri contro la senatrice Haidi Giuliani


Il deputato di An: «Carlo Giuliani è morto e la madre va a Palazzo Madama»

Fin da quando era un pischello missino, al Tasso di Roma, dedito a menar le mani assai più che agli studi classici, Maurizio Gasparri appariva quello che era: un fascista volgare e violento, nella politica come nel profondo della sua anima (posto che ne abbia una). Uno che straparlava e minacciava. Uno che firmava leggi (berlusconiane) senza nemmeno averle lette. Uno dei peggiori prodotti della "conversione democratica" dal Msi ad Alleanza nazionale. Ora, però, Gasparri ha superato ogni limite e ogni decenza: non solo ha detto che a Genova, nelle giornate di luglio del 2001, c'erano trecentomila "delinquenti", non solo, come al suo solito, ha esaltato galera e repressione, non solo è arrivato a chiedere una commissione d'inchiesta contro i parlamentari della sinistra che, allora, manifestarono dentro e con quel movimento, ma si è permesso di insultare Haidi Giuliani con parole pesanti come un manganello. Si è permesso di accusare la nostra senatrice di "speculazione politica", sul corpo di un figlio ammazzato che ancora non ha avuto giustizia, insomma di aver usato Carlo come alibi per fare carriera parlamentare. Confesso, quando ho letto il dispaccio di agenzia relativo, di aver avuto un moto incontrollato di rabbia, disgusto, ribrezzo: come si fa ad essere così cattivi e vigliacchi? Come si può, in nome di una polemica politica assurda e infondata, colpire al cuore una donna straordinaria come Haidi, che da oltre sei anni è in lotta con il mondo (e con se stessa) per ottenere un po', almeno un po' di giustizia e di verità? Come è possibile che, nelle regole dello scontro politico, non ci sia il dovere basilare del rispetto che si deve sempre e comunque all'Altro e all'Altra, anche la più lontana da te? Lo sappiano non Maurizio Gasparri (al quale auguriamo, come nonviolenti, la vita squallida nella quale finora è cresciuto e ha perfino fatto carriera), ma i nostri lettori: Haidi ha resistito come ha potuto alla proposta di essere eletta senatrice. Non voleva assolutamente accettare, perché, diceva, "non sono all'altezza", "non sono una politica" - e ancora lo dice, glielo vedo scritto sul suo volto bello e fiero quasi ogni giorno, così come la vedo meditare tante volte la voglia di andarsene, di fuggire, di tornare "a casa". Siamo noi ad averla costretta a scegliere quest'altra sede di lotta che è per noi il Parlamento repubblicano, nel quale, nonostante tutto, crediamo profondamente. Siamo noi a costringerla a resistere, a restare insieme a noi, perchè Genova resta per tutti noi il luogo dove è ricominciato il conflitto di massa, la politica di massa per la trasformazione, la voglia irresistibile di un altro mondo. Un mondo senza gasparri -o dove i gasparri, se ancora ci sono, tacciono e diventano, per primi, rossi di vergogna. Cara Heidi, nell'abbracciarti ti voglio dire: ecco un'altra piccola ma sostanziale ragione della tua, della nostra scelta. Nonostante tutto, nonostante quella impudica sentenza, nonostante il dolore e le ferite che non si rimarginano, la lotta continua.

Rina Gagliardi tratto da Liberazione del 16/12/2007

domenica 16 dicembre 2007

Vicenza in 80.000 per dire no alla base

La voce sale di tono ed alla fine è quasi un urlo liberatorio: «Siamo più di ottantamila persone, forse centomila. La cosa del corteo è ancora chilometri indietro». La risposta sono fischietti impazziti, battimani a ripetizione, bandiere bianche con la scritta «No Dal Molin». «NoTav», «No Mose», «No F35» sbandierate con forza. Ogni dubbio, ogni timore si è sciolto come la neve che aveva imbiancato la città durante la notte. Sin dalla mattina i volti scrutavano la stazione di Vicenza per vedere se i treni portavano manifestanti. A Milano arrivano voci di piccoli tafferugli perché la polizia non voleva far partire i manifestanti, mentre molti pullman erano in ritardo per le nevicate della notte e del primo mattino.
Ma i timori più forti erano dovuti a quella dichiarazione del presidente della repubblica Giorgio Napoletano che, in visita negli Stati Uniti, aveva mandato a dire che la decisione era presa, che i contrari potevano scrivere lettere o fare altro, tanto nulla avrebbe portato il governo a cambiare la sua scelta. Era dunque inutile anche manifestare in piazza il dissenso e che era per questo meglio restare a casa. Invece la manifestazione di Vicenza contro il raddoppio della base militare statunitense è andata al di là delle più ottimistiche previsioni degli organizzatori. Non ci sono state neanche le contestazioni a ministri o esponenti di partito presenti nel governo Prodi. Anche perché quelli che sono venuti nella città veneta erano davvero pochi. Giovanni Russo Spena, Francesco Caruso, Lalla Tropia di Rifondazione comunista. Franco Turigliatto, eletto nelle file di Rifondazione comunista e ora all'interno dell'avventura di Sinistra critica dopo essere uscito dal partito di Franco Giordano. E se Francesco Caruso faceva avanti e indietro per poi fermarsi nei pressi del camion dei Giovani comunisti, gli altri parlamentari erano invisibili, come fantasmatico era lo striscione firmato da «Sinistra arcobaleno», schiacciato tra i militanti del partito comunista dei lavoratori di Ferrando e la galassia dei gruppi anarchici presenti nel corteo.
Già, perché la lettura politica della manifestazione di ieri è abbastanza chiara. Le ottanta, centomila persone che hanno percorso in lungo e largo la città veneta hanno espresso una distanza siderale da quanto avviene a Montecitorio o nelle segreterie dei partiti, nessuno escluso, anche se le critiche più feroci erano indirizzate contro il governo Prodi e la sua ala sinistra, colpevoli secondo i manifesti di aver disatteso le promesse elettorale e gli impegni presi da parte di Rifondazione comunista, Comunisti italiani e Verdi di porre all'ordine del giorno un ripensamento sulla decisione di raddoppiare la base statunitense. Come reagirà il centrosinistra al successo della manifestazione è però argomento del giorno dopo. Più importante è cercare di capire come continueranno la mobilitazioni contro l'inizio dei lavori. Perché i protagonisti della manifestazione sono le donne e gli uomini che hanno reagito alla «strategia del silenzio» e hanno pacificamente occupato Vicenza.
Gran parte dei manifestanti hanno scelto di mettersi dietro il camion del presidio permanente. Sono scout, over-quaranta con un significativo curriculum di pacifismo «radicale» alle spalle, attivisti dei centri sociali di ogni dove, militanti dei sindacati di base, abitanti della Val di Susa, agit prop dei comitati contro gli inceneritori della Campania. Tanti, tantissimi i vicentini, che hanno ritmato per tutto il corteo la loro opposizione alla base militare delle loro città, sostenendo con gli striscioni e i - pochi - slogan che il rifiuto dei lavori non è dovuto certo alla convinzione di mantenere lo status quo vicentino. Con un linguaggio avvertito si potrebbe dire che sono l'altra città, quella che non ama il «modello di sviluppo del nord-est». In un melange di generazioni, culture politiche diverse.
I «No Tav» si sentono quasi a casa loro. E quando dal palco un loro portavoce invita a «resistere per esistere» e che tra Vicenza e la Val di Susa non ci sono molte differenze, allude a una tessitura di una rete - sociale e politica - che pensa di poter far valere le proprie ragioni attraverso la costruzione di un consenso che guardi tuttavia criticamente alle realtà locali da cui prendono avvio le mobilitazioni. In fondo, sono stati proprio i valsusini ad affermare che il rifiuto della Tav non era teso a mantenere la realtà così come è, ma per affermare il diritto a prendere il destino nelle proprie mani. La posta in gioco è proprio questa. Che dalle polis greche in poi è problema di democrazia, cioè di chi prende la parola perché non ha mai avuto il potere di farlo.
Il corteo ha attraversato in lungo e largo la città. Ha attraversato quartieri dove la «strategia della tensione» ha portato a chiudere negozi e a sprangare le finestre. Ma quando poi il corteo ha toccato lateralmente il centro cittadino, i negozi erano invece aperti. Infine, i comizi finali con delegati da tutta Europa e dagli Stati Uniti (molti i gruppi di statunitensi, da quelli contro la guerra in Iraq a quelli dei veterani del Golfo a quelli che chiedono l'impeachment di George W. Bush). Hanno preso la parola Dario Fo, che ha definito pazzi gli esponenti del centrosinistra che si schierano contro i loro elettori, mentre parole al vetriolo sono state pronunciate contro il presidente della repubblica («è andato negli Stati Uniti dove ha fatto la first lady di George Bush»). Don Gallo ha infine preso la parola per definire «figli di puttana» chi ha deciso il raddoppio della base. Espressione per cui valgono le parole della scrittrice Arundhati Roy: «Avrà forse ragione, ma non mi piacciono le persone che insultano le donne».
Poi il corteo si è nuovamente messo in marcia per raggiungere l'area dove è previsto il raddoppio della base militare. A guastare la festa ci ha provato Trenitalia che non voleva far partire i manifestanti venuti da fuori perché non avevano pagato il biglietto. Momenti di tensione, ma poi è intervenuto Gino Sperandio, altro deputato di Rifondazione comunista presente al corteo, che ha pagato il prezzo imposto da Trenitalia
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sabato 15 dicembre 2007

Genova G8, processo ai manifestanti: sentenza vergogna

Nelle aule di giustizia di questo Paese, alle spalle del collegio giudicante, campeggia la scritta la legge è uguale per tutti. Un qualche cosa di grottesco, se non offensivo, per molti di coloro che hanno avuto la sventura di sperimentare il nostro sistema penale. A questo aforisma smentito dalla cronaca di tutti i giorni l’ingegnere leghista Castelli, in qualità di responsabile del ministero della Giustizia, ne fece aggiungere un altro, mai rimosso e se possibile ancora più surreale: la legge è amministrata in nome del popolo.

Oggi, dopo la fulminea archiviazione dell’omicidio di Carlo Giuliani, rimasto senza un colpevole, e dopo un estenuante dibattimento durato quasi tre anni, il tribunale di Genova ha emesso in nome del popolo italiano la sua sentenza di condanna per ventiquattro di quelle centinaia di migliaia di attivisti che nel luglio 2001 ebbero a opporsi all’illegittimità di un vertice che consegnava a pochi potenti il potere di vita o di morte in ordine al destino delle popolazioni di tutto il pianeta. Tutti condannati, tranne un’imputata che è stata assolta per non aver commesso il fatto, con pene che partono da un minimo di cinque mesiundici anni di reclusione.
A dieci imputati è stata riconosciuta l’accusa di devastazione e saccheggio, "solo" resistenza per i manifestanti dello spezzone del Carlini. 102 anni di reclusione complessivi, rispetto ai 225 richiesti dai Pm Canepa e Canciani.
all’incredibile tetto di

Questa sentenza rappresenta il trionfo dello slittamento del conflitto sociale all’interno della normativa penale. Ventiquattro capri espiatori, diversificati per provenienza ed estrazione, per poter esercitare su di loro una giustizia altrettanto diversificata. Per sperimentare la tenuta di "nuovi" reati, quali devastazione e saccheggio, a fronte dei "vecchi" e obsoleti resistenza e danneggiamento.
Per riscrivere, soprattutto, una pagina di storia che assolve preventivamente l’operato di quattro corpi di polizia impegnati in un fine settimana di guerra interna, pochissimi dei quali sono imputati in processi che marciano spediti verso la prescrizione, e consegnare a una illegittimità duramente sanzionata quel "diritto di resistenza" che, praticato e sedimentatosi nelle strade e nelle piazze di Genova contro una violenza programmata e omicida, è divenuto riferimento paradigmatico per le successive lotte maturate in tutti i quadranti del territorio europeo.

Questa sentenza parla alle genti della Val di Susa, del Dal Molin, dei territori in cui vengono gestiti lager per migranti, a tutti coloro che lottano per una migliore qualità della vita. Dice loro che se qualche Defender, qualche treno o qualche carro armato passerà sopra a uno di quei corpi a pagare sarà qualche devastatore o resistente, magari in "compartecipazione psichica". A loro diciamo invece che saremo ancora e sempre davanti alle camionette, ai blindati, ai treni, alle ruspe, ai cpt, a tutto ciò che rappresenta prevaricazione e negazione della libertà. Perché questa è la legge uguale per tutti noi. Perché il popolo siamo noi.

venerdì 14 dicembre 2007

La rabbia operaia giusta e sola

Torino, manifestazione contro quattro omicidi di operai mentre altri tre combattono tra la vita e la morte. Nel corteo tra i lavoratori della ThyssenKrupp e i loro familiari c'è rabbia e dolore contro tutto e tutti.

Sono soli, disperati per il dramma, soli quando l'azienda gli comunicò la chiusura della fabbrica, soli quando per tirare avanti qualche mese devono accettare orari di lavoro disumani, soli quando non si fa più prevenzione e non si investe sugli impianti, soli quando pian piano i compagni di lavoro se ne vanno, i più esperti, quelli che conoscevano il pericolo dell'acciaio fuso.

Non possono più ascoltare comizi dal palco, discorsi di responsabilità, promesse o progetti politici semplicemente perché quando la vita non vale niente e chi ti uccide rimane impunito e comanda non puoi che lanciare un urlo lungo, insistente, assordante e poi chiuderti nel silenzio per non permettere a nessuno di entrare dentro il tuo dolore. Siamo sull'orlo del baratro. Un filo dopo l'altro che lega la solidarietà con le forme dell'organizzazione sindacale e politica si sta spezzando. Lo Stato non esiste se non contro i lavoratori. Sento per la prima volta un brivido pesante un serio pericolo per la democrazia. Un intero corpo sociale è espulso: precari e operai sono fuori e chi li uccide può dormire tranquillo. Quando ci fu l'indulto arrivarono molte critiche tra cui quella che si sarebbero scarcerati anche coloro che avevano violato le norme di sicurezza. Andai subito a vedere, non c'era e non c'è un solo imprenditore in carcere per aver ammazzato un operaio. Nemmeno quell'imprenditore di Bergamo che diede fuoco a che gli chiedeva la paga arretrata, nemmeno chi ha spostato il cadavere di un ragazzo dal cantiere alla strada per simulare un incidente. 1.300 morti, mi chiedo: è tutto fatalità, imprudenza, suicidi o ce ne è almeno uno che è stato ucciso per violazione di norme di sicurezza? Almeno per uno che ci sia un processo e qualcuno che va in galera. No, oggi non c'è. Il Governo, il Parlamento, le forze politiche devono dare subito risposte, devono reagire, lo possono fare: si possono impedire assunzioni precarie per lavori pericolosi, si può far funzionare la macchina degli ispettori, si possono chiudere gli impianti pericolosi, si può decidere che esiste in Italia un orario di lavoro massimo regolato per legge. Sono tutte misure che non costano. Lo Stato deve dimostrare che esiste. E Prodi riceve Montezemolo, ancora una volta. Non i sindacati per un piano di emergenza dopo che la ThyssenKrupp ha emanato un comunicato vergognoso e Confindustria non ne ha preso le distanze. Non si può far trascinare nel fango le Istituzioni da chi non ha la dignità morale nel dire cosa fare o non fare, non ha il coraggio di dire che tante imprese che rispettano le norme di sicurezza subiscono concorrenza sleale da chi abbassa i prezzi a scapito della vita di chi lavora. Noi, noi Sinistra che ieri ci siamo detti portatori di un progetto per rappresentare il lavoro oggi lo dobbiamo dimostrare cambiando qualche cosa, subito, per affermare che oltre l'urlo e il silenzio esiste il pianto e la solidarietà che permettono di ricominciare a lottare insieme.

di Maurizio ZIpponi tratto da Liberazione